da “Una stanza tutta per me” – MIMESIS edizione, 2021

Mi è capitato tra le mani “Una stanza tutta per me”, manuale di psicoterapia psiconalitica dell’adolescente, redatto da un gruppo di psicoanalisti della SPI che da molti anni prendono in carico adolescenti con difficoltà economiche, collocati in comunità o provenienti da famiglie multiproblematiche. Confesso di non averlo letto totalmente (sono 600 pagine), tuttavia dal poco che ho sbirciato l’ho trovato un lavoro molto interessante e specialmente coraggioso: fuori dai soliti schemi, sa cogliere appieno il vissuto di alcuni adolescenti e permette di dare uno sguardo chiaro e approfondito alle dinamiche che travolgono i ragazzi, evitando di speculare su teorie edipiche e nello stesso tempo senza tradire l’impalcatura psicoanalitica.In particolare mi ha interessato il capitolo sulla dipendenza di G. Galli e C. Giraudi “La dipendenza negli adolescenti”: la dipendenza viene descritta come una fantasia di angoscia legata al proprio sé “pensato come infinitamente affamato e bisognoso, che non può tollerare la mancanza” (p. 463).

Di fronte al cambiamento destabilizzante che ha inizio con l’adolescenza i ragazzi sono alla ricerca di oggetti consolatori, trovati nelle sostanze psicoattive, nelle dipendenze emotive, nelle dipendenze alimentari, nelle relazioni compulsive e totalizzanti con il gioco, nella vita virtuale sui network e così via. Tali dipendenze per il loro massiccio coinvolgimento, inducono un progressivo ritiro dalle relazioni sociali fino ad arrivare all’incapacità di provare interesse e piacere nell’esperienza altra rispetto alla relazione con l’oggetto della dipendenza stessa.

E’ interessante come gli autori descrivono il vissuto di tali adolescenti che sentendosi soli e incompresi, riconoscono come unico imperativo il rifiuto dello statuto infantile e il dover essere grandi. Peccato che non sanno come si fa! Questa impossibilità di comprendere suscita sentimenti di perdita e di impotenza che li induce a trovare nell’agito l’unica risposta possibile. Altro punto fondamentale è la relazione con i propri bisogni emotivi che come tali rappresentano il “grande spauracchio narcisistico adolescenziale (…) Riconoscere di avere bisogno può far sentire piccoli, mortificare. L’accettazione della dipendenza come qualcosa di reciproco… è una conquista adulta, ancora lontana” (p.467). Insomma la dipendenza buona, come nutrimento, attaccamento reciproco è una dimensione a cui alcuni adolescenti non hanno avuto accesso, mai o poco sperimentata nelle relazioni pregresse. Così il paradosso della dipendenza esclusiva e totalizzante da un oggetto o da una sostanza permette all’adolescente di alimentare l’illusione di non avere bisogno di nessuno, di essere completamente autonomo. E’ facile osservare il funzionamento “tutto o niente” di questi ragazzi: l’essere risoluti, avere le idee chiare permette di sentirsi grandi e sicuri. Questi sentimenti di sicurezza sono raggiunti attraverso la negazione dell’ambivalenza a difesa della propria totale autosufficienza (smetto quando voglio). Tutto quello che può rappresentare una possibile minaccia narcisistica è rifiutato e negato: questa condizione conduce inevitabilmente questi ragazzi a restringere sempre più i propri legami, le esperienze, a evitare di provare interessi per oggetti nuovi e investire in relazioni che potrebbero risultare dolorosamente frustranti. A fronte di tutto ciò l’adolescente spesso si è convinto di non saper amare e specialmente di non poter essere amato, con i conseguenti vissuti di inadeguatezza e incapacità. Sovente come terapeuta mi sento dire: “sono brutta/o, stupida/o… non ho mai niente di interessante da dire è ovvio che nessuno si accorga di me…”

Gli autori a tal riguardo sottolineano come al margine dello spettro patologico si incontrano adolescenti con vissuti di frammentazione, voragini interiori e profondo senso di vuoto: “Sono angosce generate da carenze precoci, traumi, deprivazioni, abusi fisici o emotivi, che sono i motori di questo senso di sé che deve essere annullato, prostrato, umiliato, mortificato, annientato, fatto fuori anche in forma tremendamente concreta e cruda attraverso le dipendenze” (p. 474) L’analista in seduta con l’adolescente si trova ingaggiato in una sfida: da un lato sarà possibile incontrare le parti più sane in modo da proporre una relazione vitale e significante, dall’altro dovrà far fronte agli attacchi delle parti distruttive e manipolatorie “volti ad attaccare ferocemente a neutralizzare ogni possibilità di significazione”, allo scopo di preservare la relazione “conosciuta”, più nociva e “tossica” ma paradossalmente più rassicurante.

(Paola Gelpi)